- Le " vittime dimenticate " del regime nazista -

Le motivazioni della persecuzione nazista nei confronti dei Bibelforscher. Ovvero, di alcune analogie con quella razziale e delle differenze.
di Claudio Vercelli


Le motivazioni della persecuzione nazista nei confronti dei Bibelforscher. Ovvero, di alcune analogie con quella razziale e delle differenze.

 

Sarebbe un errore considerare il fenomeno oppressivo e persecutorio, così come la deportazione, posti in essere dal regimi nazionalsocialista e, in subordine, da quello fascista nei confronti dei testimoni di Geova come eventi unitari e integralmente razionalizzabili sotto un'unica cifra interpretativa. In altre parole: se la fenomenologia degli stessi, ovvero le concrete manifestazioni, sia pure nella loro molteplicità, sembrano rispondere a linee preordinate e si attuano seguendo una logica di realizzazione precostituita, le premesse ideologiche così come le matrici culturali, ovverosia le ragioni di fondo che portarono i poteri costituiti a farsi poteri persecutori, in questo come in altri casi, appaiono a tratti, meno chiare ed autoevidenti, almeno ad un’attenta analisi. Il quesito di fondo al quale occorre trovare una concreta risposta ruota intorno alle motivazioni di una violenza di stato, esercitata da parte di una maggioranza nei confronti di una minoranza, seguendo i metodi e i criteri che erano stati propri a società frammentate e divise quali quelle che risiedevano nel nostro continente quand’esso era dilaniato dalle lotte di religione. Ovvero con un recupero di moventi e metodi che sembravano consegnati, almeno per l’Europa, ad una storia del tutto trascorsa e destinata a non ripetersi. E’ con l’esperienza del nazismo e del fascismo, infatti, che antichi pregiudizi conoscono rinnovato fulgore, assumendo la funzione di strumenti di governo delle società e di gestione delle comunità nazionali. Ciò che questi regimi reintroducono nel contesto delle relazioni sociali è l’uso dell’odio come potente catalizzatore degli umori della pubblica opinione e come fattore di creazione del consenso attorno ad una leadership altrimenti debole e priva di proposte politiche credibili. Lungi dall’essere elemento di divisione o di anarchizzazione del tessuto sociale l’identificazione di nemici interni (alla nazione, alla società, alla comunità) e la loro persecuzione rinsaldano i vincoli di appartenenza e solidarietà tra i membri della maggioranza che, a spese di minoranze fragili e emarginabili, ricostruiscono una sorta di patto di cittadinanza alla cui base c’è l’inclusione di certuni e l’esclusione di altri. Tutta la vicenda dell’antisemitismo biologista professato nella Germania hitleriana e praticato fino ai suoi estremi esiti va inquadrato all’interno di questo percorso logico. Può dirsi la stessa cosa per le sistematiche violenze esercitate contro una minoranza quale quella costituita dai cosiddetti “studenti della Bibbia”? Perché il regime temeva tale Congregazione e, ancor di più, per quale ragione recuperò alcuni aspetti oscurantistici dell’intolleranza religiosa dei secoli andati per giustificare l’operato avverso ad essa? Ancora: fino a che punto i testimoni di Geova potevano costituire un fattore di destabilizzazione per Hitler e i suoi uomini? E come è possibile che in un paese che pur aveva conosciuto la tragedia delle guerre di religione nei secoli trascorsi ma che ora faceva parte del consesso della nazioni civili, vi potessero tornare ad albergare i fantasmi del passato?

Il punto di fondo dal quale partire per compiere una ricognizione di senso è il riscontro che nel XX secolo i processi di secolarizzazione, di separazione tra sfere di potere e di sovranità così come la definizione di giurisdizioni assolute sono fatti in sé compiuti. La minaccia che un culto può esercitare nei confronti dei poteri civili è assai contenuta. Gli ambiti di azione e relazione sono stabiliti e stabilizzati; così nell’Europa odierna come nella Germania degli anni trenta, per l’appunto. In altri termini: la funzionalità della persecuzione delle minoranze, tanto più se religiose, è prossima al grado zero per parte delle autorità civili, se di essa se ne valuta il solo aspetto relativo alle politiche di omogeneizzazione sociale e di bilanciamento culturale. La varietà religiosa, almeno entro certi limiti, non è più un pericolo da temere, in sostanza. Se la laicità degli ordinamenti è oggetto di una costante contrattazione, tuttavia le democrazie liberali e socialdemocratiche conservano in sé gli strumenti per delimitare le aree di influenza dei soggetti in campo, a partire dalle stesse confessioni, senza ricorrere a strumenti coercitivi che eccedano il disposto legale e costituzionale. Di fatto si esercita un doppio movimento: la separazione delle sfere d’influenza (l’etica alle diverse declinazioni della metafisica, tra cui le religioni; la fisica dei poteri allo stato e alle sue diverse determinazioni) e l’incorporazione delle figure istituzionali (le Chiese e le associazioni religiose) dentro il tessuto civilistico dell’ordinamento giuridico vigente, garante e vincolante l’operato delle stesse rispetto a quelli che sono confini reputati invalicabili.

Altro discorso, invece, è il problema della concorrenzialità tra culti: è argomento significativo, che nella vicenda di cui andiamo parlando ebbe parte rilevante – in particolare modo per quanto concerne l’atteggiamento della Chiesa cattolica, sia verso i testimoni di Geova che nei confronti, soprattutto, degli ebrei – ma che non giustifica da solo la condotta fatta propria dai nuovi signori della Germania, la cui vocazione oppressiva si nutriva di motivazioni proprie; di quelle altrui semmai, si alimentava solo in termini di legittimazione di un intendimento autonomamente e anticipatamente maturato.

Come risolvere allora la discrasia che si ingenera tra un modello di stato, affermatosi in Europa, fondato sulla astensione dalla gestione degli affari dello spirito e la repentina affermazione in Germania di un nuovo ordinamento politico ed istituzionale che tende ad elidere i confini e a minare le garanzie di autonomia delle parti?

Si parta allora da un assunto: il potere politico nella sua versione nazificata non è laico bensì religiosizzato (1), investendo sfere di inalienabile autonomia dell’individuo, proponendosi come una forma civile di credo metafisico, adottando liturgie e pratiche cultuali non dissimili da quelle proprie agli stessi milieu religiosi, sussumendo all’interno della propria area d’influenza identità e soggettività distinte e superando la tradizionale separazione tra gruppi e attori dello scenario politico e culturale. Va infatti compreso che “il fine del totalitarismo è la trasformazione della natura umana, la conversione degli uomini in ‘fasci di reazioni intercambiabili’; e tale fine è perseguito mediante una combinazione, specificamente totalitaria, di ideologia e terrore. L’ideologia totalitaria pretende di spiegare con certezza assoluta e in modo totale il corso della storia; diventa perciò indipendente da ogni esperienza o accertamento fattuale; e costruisce un mondo fittizio e logicamente coerente, dal quale derivano direttive d’azione la cui legittimità è garantita dalla conformità con la legge dell’evoluzione storica. Questa logica coattiva dell’ideologia, persi tutti i contatti col mondo reale, tende a mettere in ombra lo stesso contenuto ideologico, e a generare un movimento arbitrario e permanente. Il terrore totalitario, a sua volta, serve per tradurre in realtà il mondo fittizio della ideologia, a confermarla tanto nel suo contenuto quanto – soprattutto – nella sua logica deformata. Esso colpisce, infatti, non solo i nemici reali (…); ma anche e tipicamente i nemici‘oggettivi’, la cui identità è definita dall’orientamento politico-ideologico del governo, anziché da un loro desiderio di rovesciarlo” (2). Nel caso della persecuzione dei testimoni di Geova ci si trova in quest’ultimo contesto. Nemico oggettivo è colui che viene fatto oggetto di una violenza, legittimata e legalizzata attraverso la burocratizzazione istituzionale e la serializzazione operativa, non in base a quel che fa ma per ciò che gli è ascritto. Qualità negative, va da sé, la cui attribuzione è finalizzata alla sua definizione, separazione, esclusione ed infine eliminazione dal corpo sociale. L’esercizio di una violenza di stato nei confronti di quanti – singoli o gruppi – ne diventano destinatari, stigmatizzati e resi capri espiatori, serve a rafforzare i vincoli tra i persecutori e quell’ampia zona di conniventi, perlopiù non concorrenti direttamente alle pratiche oppressive, la cui compartecipazione “silenziosa ed assente” funge all’obiettivo di creare un patto di reciprocità tra potere e società. Chi volta le spalle all’obbrobrio della prevaricazione istituzionalizzata, se ne rende in qualche modo corresponsabile. Il silenzio è un prezioso tributo che si paga sull’altare dell’interesse alla propria esistenza e, fors’anche - almeno a volte - sopravvivenza. O molto spesso, assai più prosaicamente, in virtù di un calcolo sui possibili ritorni, non solo economici, che l’indifferenza permette di ottenere. Una sorta di novello patto faustiano dove la società civile offre all’ordinamento politico la propria anima in cambio di una  serie di garanzie di stabilità e continuità. Fatto quest’ultimo, che se nella Germania degli anni trenta, così come nell’Italia del decennio precedente, sono ben intellegibili, all’aldilà dei singoli, specifici episodi richiamano questioni di fondo che sono alla radice dell’operare umano nella nostra contemporaneità (3).

Il problema non è solo di ordine etico ma coinvolge direttamente la riflessione sulla radice stessa dei legami sociali e di come, anche nelle moderne comunità nazionali, il patto di inclusione dei più si preservi e continui a funzionare, soprattutto nei frangenti socioeconomici, attraverso l’identificazione di capri espiatori, ovvero per mezzo dell’esclusione di altri. Designati ad hoc come vittime, in quanto occasionalmente funzionalizzabili per un tale ruolo, gli individui che ricadono in quest’ultima categoria assurgono al ruolo di catalizzatori delle qualità negative che una società imputa a sé, in un processo di attribuzione ascrittiva che, di passo in passso, si fa sempre più gravoso per i destinatari ed irreversibile negli effetti. La cui devastante misura è pari alla radicalizzazione che questo subisce. E le cui vittime, divenendo autentici agnelli sacrificali, sono condannate ad una doppia pena: la prima, quella dell’esclusione dai circuiti sociali, della detenzione in ambiti separati (i lager) e dell’eventuale distruzione fisica; e la seconda, quella della damnatio memoriae ovvero della cancellazione delle tracce della loro presenza dal novero delle cose terrene, in una sorta di riscrittura della storia che vorrebbe estirpare tanto i corpi quanto i segni del loro passaggio terreno. La vicenda degli ebrei europei è sintomatica e ampiamente eloquente a tale riguardo. Parimenti, fatte le debite differenze, può dirsi della persecuzione dei testimoni di Geova in quanto membri di una minoranza religiosa e non come componenti di una “razza”: se nei confronti di questi l’arbitrio si esercitava in virtù dell’appartenenza ad un gruppo, con il quale rescissi i legami venivano a mancare i presupposti per la prosecuzione delle violenze, per gli ebrei la motivazione era ideologicamente più netta, nella misura in cui trovava come ragione fondante il costrutto antropologico.

Nei sistemi totalitari l’autolegittimità sopravanza la legalità ed incorpora i processi di rappresentanza che sono, invece, alla radice dell’operato democratico. La forza - se così la si vuole chiamare - dei regimi totalitari sta nella capacità, sul piano politico, di inglobare al proprio interno, fagocitandoli, tutti i differenti segmenti di cui si compone la complessa e variegata prassi di formazione e definizione della decisione, attraverso il coinvolgimento della collettività. Coinvolgimento, quest’ultimo, che pur avviene ma solo più ad un livello di passivizzazione e sanzione plebiscitaria. Sul piano sociale è totalitario quel potere che riesce a far collimare il pluralismo delle articolazioni comunitarie ai costrutti della propria volontà, costituendosi così in regime. Il totalitarismo compiuto si ha quando non è lasciato più alcun spazio a qualsivoglia forma di pensiero che non collimi con quello dominante, non importa se oppositivo o meno che sia. La sovrapposizione e la coincidenza tra la volontà dei dirigenti e il pensiero dei diretti deve essere totale. O per l’appunto totalitaria. Così come le articolazioni sociali devono essere integralmente ricondotte a quello che è concepito come l’unico grado di legittimazione possibile, quello fornito dal centro politico. In una inversione di ruoli, laddove non è più la comunità a riconoscere la validità del circuito di governo ma, semmai, viceversa.

Sia detto di sfuggita che la possibilità per un qualsiasi culto di svilupparsi è direttamente proporzionale al contesto sociopolitico in cui opera: la Denominazione cristiana dei testimoni di Geova, non a caso, è figlia di quel paese, gli Stati Uniti, che sono stati culla di molteplici esperienze religiose e che della libertà di culto ne hanno fatta questione di principio, al punto da incorporarla all’interno del loro massimo statuto, la Costituzione. Questo, al di là dei complessi e a volte illineari percorsi d’implementazione, è un obbligo di riscontro. A rischio di riconoscere l’intima contraddizione che vige tra la condizione di distinzione in sfere separate vigente nei sistemi politici liberali, che è garanzia del soddisfacimento dei bisogni di comunicazione e della realizzazione della libertà di espressione ed esercizio del proprio credo e propensione, per parte dei singoli culti, a sovrapporsi alla varietà per ricostruire un’unità che risiederebbe nella realizzazione del dettato della propria teologia. A scapito, almeno in potenza, di quelle stesse regole che garantiscono attraverso il pluralismo la manifestazione delle diversità. Ma che le democrazie sociali contemporanee siano un complesso di equilibri e di bilanciamenti oggetto di costante ricontrattazione, già lo si è detto e non ci si soffermerà ulteriormente.

La neutralità che la Congregazione legittimamente rivendica nei confronti dei poteri costituiti non può quindi tradursi in indifferenza: la vicenda di cui andiamo parlando, peraltro, lo comprova a chiare lettere. Poiché la premessa affinché i testimoni di Geova, così come altri culti, possano esistere, è la praticabilità della scena pubblica. Il cui governo è di pertinenza anche e soprattutto del politico. Che nei regimi ad impianto totalitario si sovrappone ad ogni altra determinazione, giungendo ad esprimerne la volontà o, in caso di irriducibilità al proprio progetto, a distruggerne la presenza.

Sgombriamo subito il campo da equivoci di sorta: per parte dei regimi autoritari e, soprattutto, totalitari, sussisteva un’avversione di principio nei confronti della Congregazione. In altre sedi (3) già si è avuto modo di ribadire, con cognizione di causa e supporti testimoniali e documentari, ragioni ideologiche ed anche criteri operativi di tale condotta. Le accuse rivolte a quella che era considerata una “setta” variavano di circostanza in circostanza ma era riconducibili ad alcuni cliché permanenti: l’internazionalismo spirituale ed organizzativo, l’accusa di criptosemitismo e filobolscevismo, l’antinazionalismo, il pacifismo confesso e dichiarato, la simpatia per i regimi liberali (evidentemente, quest’ultima, non di ordine strettamente politico bensì “esistenziale”). Tali connotazioni erano di natura attributiva, ovvero erano conferite ai loro destinatari, i membri della Congregazione, per delegittimarne la presenza e l’operato senza una verifica empirica delle effettive opinioni ed un riscontro fattuale. Non necessariamente corrispondevano a qualità e posizioni assunte dai gruppi dirigenti o, comunque, dagli appartenenti al culto. Che professavano, peraltro, la propria dichiarata “neutralità” rispetto al regime vigente.

In realtà due erano i fattori che maggiormente incidevano nel giudizio avverso ai testimoni di Geova:

1.     su un piano più strettamente socioculturale si identificava la capacità di attrazione, dovuta sia ad istanze dottrinali che ad una capillare opera di conversione, che il gruppo iniziava a svolgere nei paesi in cui era presente. Qualificandosi così, a volte suo malgrado, come un competitore nei confronti di regimi la cui stessa natura - per l’appunto totalitaria -  presupponeva il controllo sistematico e il monopolio rigoroso di tutte le forme di strutturazione e manifestazione del pensiero e di determinazione dei momenti di socializzazione e di socialità. Aspetto, questo, che connota il nazionalsocialismo e i fascismi nel momento in cui da movimenti si trasformano in istituti politici permanenti, sovrapponendosi e compenetrando tutte le strutture sociali esistenti. Nessun spazio, neanche residuale, doveva essere concesso a forme di autorganizzazione alternative a quelle imposte dai nuovi padroni. Tanto più quando queste erano depositarie di un culto che si proponeva come modello di vita, come forma di esistenza, capace di informare di sé più aspetti della quotidianità del professante;

2.     su un piano ideologico, a parte la implicita contrapposizione escatologica tra due soggetti vocati ad una concezione finalistica e teleologica del processo storico, si poneva il problema, imprescindibile per i fascimi e il nazismo, di un qualche accordo con le Chiese ufficiali. Di queste ultime ne veniva identificata la capacità di indirizzo e organizzazione per un numero elevato di credenti. Si coglieva, insomma, il rischio di una diarchia tra i partiti al potere e le istituzioni ecclesiali, che non avrebbe di certo agevolato i primi. Se nel caso delle opposizioni politiche la strada seguita era quella della repressione sistematica, nei confronti dei culti “ufficiali” (considerati tali per il grado di presenza nel tessuto sociale e per l’elevato livello di istituzionalizzazione delle loro pratiche) il discorso era molto più complesso. La percezione del proprio grado di influenza sul corso degli eventi per parte del Vaticano, ad esempio, è una delle chiavi per comprendere l’atteggiamento assunto da Pio XII nei confronti del nazifascismo. Atteggiamento del tutto distinto, se non opposto, a quello fatto proprio nei confronti del comunismo staliniano. Del quale si avversava non solo il progetto sociale ma anche e soprattutto la politica di repressione che poneva i religiosi su un piano non diverso da quello degli oppositori politici. Per raggiungere l’obiettivo di un accomodamento temporaneo dei rapporti – estrinsecatosi in Germania come in Italia attraverso i regimi concordatari – i nuovi poteri scesero letteralmente a patti con le istituzioni ecclesiali. Contravvenendo così – almeno in parte – alla loro vocazione totalitaria; ma adempiendo ad una necessità improrogabile, quella di evitare l’aprirsi di un fronte conflittuale, difficilmente gestibile, con figure forti e potenzialmente concorrenti. Affinché ciò andasse a buon esito, necessitava loro sgombrare il campo dalla presenza di figure eccentriche ed estranee al campo dei culti consolidati ed istituzionalizzati. I testimoni di Geova, soprattutto in Germania, erano la variabile irriducibile a questo disegno di “stabilizzazione temporanea” dei rapporti tra due poteri, quello politico di Hitler e quello spirituale delle Chiese. Soprattutto due erano i fattori che stridevano con tale costruzione: il proselitismo e il pacifismo. Il primo implicava una presenza attiva nella società, il proporsi come soggetto di identificazione ed adesione. E ciò, di fatto, impediva alla Denominazione il ricorso, in quanto risorsa per la sopravvivenza del gruppo, alla mimetizzazione sociale attraverso la sospensione delle pratiche di conversione. La propensione alla grandi iniziative pubbliche, alle liturgie collettive, alla produzione e alla diffusione di una stampa alternativa a quella ufficiale, strideva poi con la pretesa del regime di monopolizzare ogni ambito sociale, “nazificandolo” secondo i dettami non solo della sua dottrina ma attraverso il criterio dell’esclusivismo organizzativo e rappresentativo. Il secondo, il dichiarato pacifismo, faceva sì che tra la vocazione bellicista e militarista del nuovo ordine hitleriano e l’avversione di principio nei confronti dell’uso della violenza, ancor di più se istituzionalizzata, si generasse un campo di tensioni e di scontro irriducibile a qualsivoglia forma di mediazione. L’opposizione dei Bibelforscher, prima ancora che per un atto di consapevole avversione nei confronti di un ordinamento politico di cui comunque misuravano, di giorno in giorno la distanza rispetto ai loro principi etici, nasceva dalla maturata consapevolezza che lo spazio di manovra andava sempre più riducendosi. La Dichiarazione dei fatti del 1933 (5), oggetto di ripetute polemiche, esprime nella forma, prima ancora che nei contenuti, la disperata cognizione di quanto stava avvenendo ed il tentativo di mantenere un margine d’azione che il regime nazista non avrebbe comunque concesso in alcun modo. Il collassamento dei rapporti tra i nuovi padroni della Germania e la Congregazione era quindi nell’ordine delle cose. Si generava in virtù dell’incompatibilità esistenziale tra le due entità – regime e Denominazione. Riducendo ai minimi termini il tutto, la questione si poneva sul piano del conflitto per una comune posta in gioco – la gestione delle anime – al quale venivano offerte due opposte soluzioni: dominio o liberazione. Il Mein Kampf contro la Bibbia, insomma, la fascistizzazione contro l’evangelizzazione. Per il laico tale prospettiva può risultare assai poco stimolante; per il credente può fare la differenza tra la vita e la morte. Scegliendo il messianesimo religioso, ed adempiendo con coerenza e coraggio ai suo dettati, ci si poneva in rotta di collisione con gli apparati repressivi dello stato totalitario.

Fermo restando, quindi, il presupposto di una irriducibilità del movimento religioso dei testimoni di Geova alla volontà e alle ragioni dei regimi presenti sulla scena europea a cavallo tra gli anni venti e quaranta - irriducibilità che era nei fatti, prima ancora che nelle volontà, trattandosi di un culto radicalmente eccentrico e intimamente oppositivo alla natura propria di questi – così come la determinazione con la quale questi ultimi agirono nei confronti dello stesso, rimane il problema di identificare gli indirizzi di fondo della politica repressiva posta in essere per eradicare le radici di ciò che con termine spregiativo veniva chiamato il “geovismo”.

Infatti, lungi dal ridursi a meccanismi perfetti e ben oliati, i regimi che perseguitarono i testimoni di Geova, così come i membri di altre minoranze culturali, sociali, politiche ed “etniche” all’epoca, identificavano e realizzavano i loro obiettivi seguendo criteri orientati ad un fine chiaro e netto (la bonifica culturale, politica, sociale ed in ultimo razziale della società) ma mutevoli nelle forme. La flessibilità era una virtù, se così la si vuol definire, dell’apparato persecutorio nazifascista. Una flessibilità operativa che nulla aveva a che spartire con l’accondiscendenza nei confronti di quanti era visti sempre e comunque come oppositori ma che molto doveva al gioco delle circostanze. Ed anche alla implicita contraddittorietà e alla mutevolezza negli equilibri decisionali, dei soggetti che vi prendevano parte e dei metodi adottati per la implementazione del decision-making. Lo scontro era tanto più violento e il conflitto tanto più furioso quanto maggiore era l’area d’incertezza in cui si trovano ad agire quanti erano preposti all’esecuzione del comando (6).

A tal riguardo è senz’altro interessante enumerare le accuse che contro i  testimoni di Geova furono levate: che, non troppo curiosamente, coincidevano o si approssimavano alle colpe ascritte agli ebrei. Internazionalismo, filobolscevismo, plutocapitalismo, simpatia per gli alleati occidentali, intelligenza con il “nemico” e così via. Peraltro, se di questi ultimi ultimi si qualificava la loro estraneità alla nazificata “comunità nazionale di popolo  adducendo criteri razziali, proprio in virtù dell’incosistenza scientifica ed empirica degli stessi  si doveva fare ricorso alle categorie religiose al momento della definizione e identificazione dei destinatari delle persecuzioni. Come la vicenda delle cosiddette leggi di Norimberga del 1935 chiaramente esprime i nazisti se, da un lato, dichiaravano che l’ebraicità non era una condizione religiosa bensì biologica – la cui proiezione, secondo questo costrutto, trascendeva il dato naturale per tradursi in progetto ideologico (alla razza corrisponde un’intenzione egemonica) – al contempo per definire questa interiore costituzione, per l’appunto la “genetica dello spirito”, ci si affidava a definizioni e declinazioni prevalentemente religiose. Un paradosso, una contraddizione in termini, un cortocircuito che informava di sé tutta la struttura delle persecuzioni razziali. E qui possono intervenire alcune analogie, entro ovviamente i dovuti limiti, con la vicenda dei Bibelforscher:

1.     intanto, né l’uno né l’altro gruppo costituivano un serio pericolo per il regime. Ancora una volta non ci si stancherà di ripetere che né le comunità ebraiche né gli “uomini della Bibbia” erano per loro intima natura dei gruppi oppositivi. Non almeno a priori. Non di certo perché nel loro statuto etico sussistesse una qualche vocazione politica. Esistevano per assolvere a ruoli distinti e ben diversi da quelli propri alle organizzazioni politiche, sindacali e a quel milieu sociale e culturale che intorno a queste ultime ruotavano. Mentre le comunità ebraiche erano associazioni, giuridicamente riconosciute, di singoli individui appartenenti, poiché praticanti, alla religione mosaica o i cui avi erano essi stessi definiti ebrei, i testimoni di Geova erano una confessione cristiana senza finalità che non fosse l’esercizio del proprio culto. Le strutture organizzative delle une come degli altri sono sempre state funzionali agli obiettivi manifesti e conclamati. Va da sé che in quanto sodalizi umani potessero occasionalmente entrare in contatto con altri gruppi più o meno strutturati. Ma la sostanziale neutralità, soprattutto politica, era un dato incontrovertibile. Da un punto di vista sociologico, poi, l’eterogeneità degli elementi che, soprattutto nel caso degli ebrei, facevano parte delle comunità presenti sul territorio germanico, rendeva pressoché impossibile qualsivoglia criterio organizzativo che non fosse quello richiamato dagli statuti delle stesse: luoghi di socialità, di esercizio del culto e di attività culturale e caritative. E’ peraltro un classico del pensiero antisemita l’identificare la presenza di propositi occulti sotto l’apparenza quietistica (la teoria del complotto). Tale intendimento veniva attribuito anche ai testimoni di Geova, dei quali, non a caso, per parte nazista si mettevano in luce analogie con il semitismo e un elevato grado di “giudaizzazione”. L’accusa, neanche troppo implicita, in questo caso, era quella di contaminarsi con il nemico di razza per eccellenza, venendo così meno al proprio arianesimo e agli obblighi che derivavano dall’appartenenza ad un “sangue” che si voleva puro e di nobili ascendenze, secondo la mistica razziale dominante. Insomma, la cornice di riferimento era quella della razza come comunità di destino alla quale i testimoni di Geova si sarebbero sottratti;

2.     la questione del pacifismo e, più in generale, del rapporto con gli ordinamenti politici terreni costituiva non solo un ulteriore elemento di tensione tra il regime e la Denominazione cristiana ma anche un fattore per alcuni tratti analogico con quanto riguarda le motivazioni di singoli aspetti delle persecuzioni realizzate contro gli ebrei. Nella concezione del mondo nazista non esisteva una umanità bensì un crogiolo di razze, caratterizzate da un carattere ascrittivo – il sangue che connotava la bontà o meno dell’appartenenza stessa – e il cui destino era quello di farsi la guerra. Al termine di essa la razza migliore, quella ariana, avrebbe dominato su quanto sarebbe residuato del resto delle comunità. Agli ebrei si contestava una sorta di “genio malefico” che per vedere affermata la propria potenza, intesa come volontà assoluta di dominio, si adoperava per indebolire la “purezza” altrui. Purezza di razza, per l’appunto, che era nitore di sangue dal quale promanava la forza e la determinazione di costruire l’egemonia dell’arianesimo sulle altre stirpi, non meritevoli di governare poiché inferiori, corrotte e imbastardite. All’interno di questa costruzione ideologica non c’era spazio per quelle condotte che avrebbero potuto arrecare danno o indebolire le condotte congruenti a questa volontà di ferro e fuoco. L’alterità della Congregazione dei testimoni di Geova introduce, nell’ottica nazista, elementi di indebolimento nella rigida struttura del pensiero voelkich, fondato sulla razzizzazione di tutti i rapporti sociali, sulla costruzione di un’egemonia imperiale tedesca nei confronti dell’Europa e sul ridisegno sociodemografico delle comunità che ne facevano parte. L’indisponibilità all’assunzione e alla condivisione dei rituali e delle liturgie paganeggianti del Terzo Reich; la manifestazione esteriore di una diversità rispetto allo spirito dominante, coltivata ed espressa con orgoglio; la preservazione di uno spazio proprio all’interno del quale esercitare non solo le prerogative del culto ma costruire anche una soggettività sottratta ai dettami del pensiero unico dominante; l’indisponibilità verso il servizio militare e, più in generale, nei confronti di quegli atti e di quei gesti che comportavano la subordinazione al bellicismo dilagante erano fattori che scavavano uno iato inseparabile tra il regime e la Denominazione. Segnandone il destino. La questione del rifiuto al ricorso alle armi è di capitale importanza poiché segna il punto di non ritorno tra i due soggetti: una comunità ed uno stato che si preparavano ad una guerra su più fronti, dai connotati palesemente imperialistici, una dottrina politica fondata sulla volontà di potenza intesa come esercizio bellico, il coinvolgimento dell’intera società in uno sforzo spasmodico, volto alla realizzazione degli obiettivi di una leadership orientata alla conquista, non potevano tollerare che una parte della popolazione si sottraesse agli imperativi vigenti, ponendo a rischio il loro raggiungimento. Il rifiuto di prestare servizio nell’esercito, il diniego al saluto, la sottrazione agli obblighi della leva rappresentavano non un’infrazione amministrativa ma un attacco al cuore del sistema nazista. E, nella logica dello stesso, un’offesa alle prerogative sacre della razza ariana, guerriera per definizione;

3.     se il nazionalsocialismo si presentava come la dottrina del “nuovo ordine” dove ogni cosa avrebbe trovato la sua giusta collocazione - e chi, essendone eccentrico o estraneo, ne sarebbe stato espunto, eliminato -  l’ebraismo era il principio oppositivo. I seguaci di Hitler lo tematizzavano come l’incarnazione del caos, del meticciato universale, dell’ibridazione culturale e biologica, della confusione dei ruoli. E si presentavano come i restauratori di un antica armonia, gerarchizzata, andata perduta per via delle successive stratificazione e contaminazioni. Delle quali, per l’appunto, erano responsabili gli ebrei. I quali usavano una leva particolare, quella dell’internazionalismo, per diffondere confondere i diversi piani di separazione tra le “razze” e porre in discussione l’arianocentrismo. Ai testimoni di Geova veniva rivolta una accusa non dissimile, dal momento che essi erano identificati in quanto emanazione di una centrale la cui sede era estera e il cui operato si configurava come il prodotto di una volontà cospirativa, di matrice massonica, contrapposta agli interessi della germanità e, nel caso nostrano, dell’italianità. Quinta colonna, in sostanza, di potenze straniere ma anche dell’imbastardimento della “comunità nazionale di popolo”; diffusori di un credo che predicava la fratellanza contro la guerra tra le “razze”; propugnatori di una sorta di meticciato universalista alternativo al particolarismo delle stirpi.

L’avvio e la prosecuzione delle persecuzioni verso questa minoranza religiosa anticipò, logicamente e cronologicamente, alcuni aspetti delle violenze sistematiche che in un periodo immediatamente susseguente interessarono gli ebrei, tedeschi prima ed europei poi. Sarebbe inopportuno, oltreché ingeneroso moralmente e falsificante storiograficamente correlare fenomeni oppressivi che mantennero un certo grado di differenziazione. Ma proprio per capire le diversità è bene interrogarsi anche sulle analogie. Che vi furono e delle quali, ancor oggi, manca adeguata cognizione. Se vi sono distinti gradi di sofferenza è anche vero che i perseguitati di allora soffrirono tutti. Ed è ancor più vero che ogni dolore è sì soggettivo, nella misura che appartiene solo ed unicamente a chi lo vive, ma la sua comprensione è un impegno per chiunque senta di far parte dell’umanità, l’unica dimensione collettiva nella quale è legittimo riconoscersi senza distinzioni di sorta. Non a caso, perciò, negata dai regimi sui quali stiamo conducendo la nostra indagine.

 

Claudio Vercelli

 

(1) La bibliografia sul tema del totalitarismo è oramai vastissima. A titolo di sintesi il volumetto di Simona Forti, Totalitarismo, Laterza, Bari-Roma, 2001 e la omonima voce redatta da Mario Stoppino per il Dizionario di politica, per la direzione di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, Utet, Torino edizione del 1983.

(2) Stoppino, op. cit., pag.1192

(3) Gli articoli precedentemente pubblicati in questo stesso sito.

(4) A tale riguardo Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino più edizioni ma anche le riflessioni di Elias Canetti in Potere e sopravvivenza, Adelphi Editore, Milano più edizioni anch’esso.

(5) Sulla Dichiarazione si veda il testo ed un’ampia rassegna del materiale di accompagnamento e di interpretazione disponibile su questo sito.

(6) Su questo ed altri temi il canonico rifermento è al volume di Ernst Fraenkel, Il doppio stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983. Sussiste inoltre un’ampia produzione bibliografica che indaga sulle complesse ramificazioni dei regimi a base totalitaria e sui processi di formazione e realizzazione delle decisioni. La comprensione del problema delle economie di potere è alla radice della identificazione dei diversi momenti di formazione dei procedimenti repressivi, funzionali sempre e comunque alle prime.


 Claudio Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione sugli “Usi della storia, usi della memoria”

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